Uomini e tecnologìa

  

 

Nel percorso della vita  può capitare  d’incontrare una persona e, con il passare del tempo, ci accorgiamo che questa ha sensibilmente influito sulla nostra esistenza, modificando o addirittura plasmando  le nostre conoscenze, espandendole e perfezionandole.

A me questo è capitato mezzo secolo fa: nel 1963 quando, emigrato a Torino, entrai alla Fiat Ferriere di Corso Mortara ed ivi destinato nel Servizio di Manutenzione Elettrica. Pur avendo all’epoca la Licenza tecnica industriale, specializzazione elettricisti, non superai la prova: il cosiddetto “capolavoro”, al quale la Fiat sottoponeva gli aspiranti alla “prima categorìa”, ma considerato comunque “abbastanza pratico del mestiere”, mi proposero l’assunzione come “secondo” , entrando immediatamente in turno. Naturalmente accettai perché la Fiat mi assicurava  un  lavoro ben retribuito e soprattutto sicuro. Questo particolare che a prima vista potrebbe sembrare  negativo e spiacevole, si è rivelato, in seguito, positivo e piacevole sotto ogni punto di vista  perché la persona con la quale nel lavoro ho fatto coppia, oltre a frenare con la sua esperienza  la mia esuberanza giovanile che talvolta poteva essere anche pericolosa in tale mestiere ed in tale ambiente, ha contribuito notevolmente alla mia formazione professionale  e costituito il viatico determinante per quella che sarebbe stata la mia futura carriera nel settore specifico.

La persona si chiamava Alberto Villa ed era il migliore di tutti gli elettricisti  del reparto, e molto probabilmente di tutta la Fiat; tenuto nella massima considerazione sia dai capi che dagli altri colleghi.

Nato a Cuceglio (TO) nel Canavese, diciotto anni prima di me,  il 12 ottobre 1919, da Innocenzo Villa e Maria Zanotto, nell’agosto del 1938 era entrato nella Marina Militare  ed aveva frequentato quelle scuole che, come tutti sanno, hanno  sempre fornito alla società civile tecnici con elevate qualità professionali.

Imbarcatosi sull’incrociatore Giuseppe Garibaldi, vi è restato per tutta la durata  della seconda guerra mondiale, cioè fino al maggio del 1945.

Di tale periodo mi raccontava tanti fatti, ad iniziare da quelli più prossimi al congedo  fino a quelli più lontani, quelli del primo imbarco, come l’incontro con Agostino Straulino all’epoca ufficiale della Decima MAS,  velista olimpionico e comandante della  nave scuola Amerigo Vespucci, quando di tali fatti mi parlava.

Fatti riguardanti il periodo della cobelligeranza nel 1944, durante il quale aveva  fatto per mesi la spola di pattugliamento fra l’Africa e l’America del Sud  per il controllo di  quel tratto  dell’Atlantico, rammaricandosi di non aver potuto mai mettere piede su nessuna di quelle terre:  “…ci spingevamo fino al limite delle acque territoriali del Brasile - diceva - vedevamo appena quelle coste e già si doveva tornare indietro !

Mi parlava della sua permanenza a Taranto dove, per la gente del posto, l’umanità si divide  in due sole categorie: “Marinare e Cristiane ” !

Ricordava il siluramento dell’incrociatore Trieste nel novembre del 1941, appena dopo il “piacevole soggiorno a Napoli” dove il “suo Garibaldi” era rimasto  quattro mesi per la riparazione dei danni causati da due siluri lanciati da un sommergibile britannico.

E di Napoli  aveva uno splendido ricordo, arrivando perfino a trovare belle anche le tante contraddizioni dei suoi abitanti, cosa questa sulla quale pochi erano d’accordo…io compreso.

Di questa città gli era rimasta impressa  “Via Del Sergente Maggiore”; ne parlava sempre ma non ricordava la sua ubicazione  e una volta  mi chiese se, per caso, io ci fossi passato o sapessi dove questa si trovasse !

Per i piemontesi, tutti i meridionali sono “napoli” e, come già detto, pur se scevro da pregiudizi sulla gente del Sud in generale, Alberto non riusciva a sottrarsi alla logica di un luogo comune e cioè che tutti i meridionali, poiché “napoli” dovessero per forza conoscere questa città e …le sue strade! Quando gli feci notare che oltretutto tale via non era poi fra le più note, si scusò e, con un sorriso di sufficienza  aggiunse: - Già… e poi tu… sei di Roma ! - ed io: - …nato soltanto lì  ma…sempre considerato di Santa Croce del Sannio, che fa comunque parte della Campania ma da Napoli più di cento chilometri ...verso il Nord ! – Questa battuta gli piacque moltissimo, ne apprezzò l' umorismo!

Io e Alberto siamo stati insieme per tutta la mia permanenza in Fiat, quasi sette anni, ben contento di essere stato sempre il suo secondo, anche se per il mio bene più volte mi ha spronato a ripetere il “capolavoro” per conseguire la categorìa, cosa questa  che  poi ci avrebbe divisi. D’altra parte spesso gli era stato proposto di diventare "Capo"  ma lui, da comunista convinto qual’era, si è sempre defilato. Aveva una pessima considerazione dei  "Capi" e sapeva benissimo che una volta diventato tale, l’Azienda gli avrebbe imposto comportamenti contrari alla sua coscienza.

Avevamo molti interessi in comune, le stesse passioni , quelle solitamente chiamate hobby , cose queste che hanno costituito  il collante della  nostra crescente amicizia.

Sette anni insieme, sette anni di turni massacranti in rotazione con le altre squadre:  mattino, pomeriggio, notte, mattino, pomeriggio,notte…sempre pronti ad intervenire sui guasti degli impianti elettrici di ogni genere, dai più semplici e comuni a quelli più complessi  dei  treni di laminazione a caldo o di  quelli molto più sofisticati a freddo come il Sendzimir, che quando faceva le bizze erano “cavoli amari” ma che,in fondo, ci ha dato poche noie rispetto a tutti gli altri.

Durante le lunghe pause delle ore  notturne  parlavamo di tutto ciò che era di reciproco interesse.

Appagai la sua curiosità circa le notizie che mi chiedeva su Santa Croce, descrivendogliela con tale dovizia di particolari  che: quando anni dopo, licenziatomi dalla Fiat e ritornato in Meridione, “venne giù” a trovarmi, insieme alla sua famiglia ed a quella del  fratello Nino, mi confessò che gli sembrava di esserci già stato !...

Lui mi parlava di Cuceglio, della casa paterna che aveva ricostruito con le sue proprie mani, della sua mamma, del suo papà cieco dalla nascita che si faceva leggere il quotidiano perché voleva sempre essere aggiornato su quanto  accadeva nel mondo ; del fratello Nino, ottimo rettificatore  meccanico presso la Olivetti e provetto fisarmonicista.

Cuceglio era lì, a portata di mano e m’invitò a fargli una visita in un fine settimana, quando ci si sarebbe recato anche lui con la famiglia che normalmente vivevano a Torino in Via Di Nanni; mi dette tutte le istruzioni per arrivarci e ricordo ancora quel : - sull’autostrada per Ivrea devi uscire a S.Giorgio-Caluso ! -

Quando per la prima volta mi recai a Cuceglio, in verità, anche a me parve di esserci già stato! Tutto secondo le descrizioni notturne ! La sua casa da poco restaurata, la vigna, perfino il tino del vino in cemento da lui costruito e battezzato, se non erro, con la scritta “ hoc est corpus Bacchi ”.

A casa del fratello Nino, che affacciava sul cortile comune, su di un registratore a nastro, ascoltai alcuni brani eseguiti da costui ed un suo amico con il quale, tempo addietro, avevano formato un duo. Brani veramente molto belli  ma che purtroppo cessai di ascoltarli  allorquando  Nino mi disse che quel registratore l’avevano costruito lui e Alberto; Nino per quelle parti meccaniche che necessitavano di un’accurata rettifica come il volano, i ruotismi di rimando , il pivot per il  trascinamento e quello per la conversione delle velocità di scorrimento  del nastro etc. ; Alberto per la  meccanica  portante e per i circuiti elettrici ed elettronici.

Rimasi estasiato e quasi incredulo a fissare quel gioiello mentre del brano musicale  non restava che un sottofondo piacevole ed ormai soltanto "di contorno" alla mia meraviglia. Ne avevo visti ed usati di registratori a nastro magnetico, anche di marca, ma di quella fedeltà mai, mai  ascoltati !

Volli sapere tutto del sistema, nei minimi particolari, e la cosa che trovai interessante fu che in tale  realizzazione le parti  meccaniche erano ridotte al minimo indispensabile in quanto venivano utilizzati tre motori: uno per la trazione del nastro magnetico e gli altri due per lo svolgimento e l’avvolgimento lento e veloce del nastro sulle due bobine calettate direttamente sui relativi assi.

A questo punto posso affermare  che fra le tante attività hobbistiche di Alberto  quelle  più coinvolgenti  erano i registratori a nastro e gli amplificatori ad alta fedeltà; ma di lì a poco i suoi interessi si sarebbero orientati altrove, su cose completamente diverse per le quali io ne fui l'artefice involontario.

Da quel giorno  in poi parlammo meno dei nostri paesi e molto più di registratori, di musica e di... strumenti musicali.

Strimpellavo da tempo la chitarra. Nel passato, a Roma dove lavoravo, ne avevo adocchiata una elettrica in un negozio in fondo a Via Nazionale, una bellissima Eko madreperlata bianca posteriormente, ed oro anteriormente, quattro rivelatori magnetici, tastiera timbrica a sei pulsanti, manico perfetto. Ogni sera, quando uscivo dall’ufficio,  andavo a guardarmela sognando ad occhi aperti.

Un giorno il titolare del negozio, accortosi delle mie frequenti visite, capì e m’invitò ad entrare per provarla.

Collegata ad  un amplificatore Fender, quella chitarra era una "bomba" e, senza accorgermene, mi lasciai andare in un pezzo "supercollaudato" che mi faceva apparire quel che non ero! Non so quanto feci durare quel brano ! Il titolare sorrideva annuendo  soddisfatto, poi si sedette all’organo, era un Hammond, ed incominciò a  seguirmi "svisando" ed improvvisando al volo.

Quando terminammo, davanti il suo negozio s’era fatta la folla ! Si complimentò e mi disse che se avessi deciso di comprarla mi avrebbe fatto un prezzo veramente di favore! Di favore, ma per le mie tasche comunque proibitivo; risposi  che ci avrei pensato, e da quella sera non ebbi più il coraggio di fermarmi li; mi accontentai talvolta di sbirciare la "mia" Eko dal marciapiede opposto !

Il giorno che mi licenziai, prima di prendere il treno, corsi a comprarla, spesi quasi tutta la liquidazione  e tornai a casa... "al verde" !

Dovunque andassi me la portavo sempre dietro e così fu anche quando partii per Torino.

Fu proprio questa chitarra a dare inizio alla nostra attività che battezzammo “elettronica  strumentale”.

Mi ero costruito un amplificatore, ben lontano da essere come il Fender del negozio di Roma; l’avevo equipaggiato con un generatore di vibrato autocostruito il cui schema era apparso su “Sistema Pratico” una  rivista  di elettronica dell’epoca, ma era un  vibrato che “batteva” smorzando le note in un modo scandaloso !

Una notte ne parlai  con Alberto che ci volle veder chiaro e si mise subito a studiare quello  schema con impegno. Passò qualche tempo ed infine arrivò alla conclusione: così come era stato progettato  il circuito non poteva funzionare che  in quel modo. Con caparbietà e ostinazione continuò a fare innumerevoli prove mettendomi al corrente dei continui insuccessi. Avevo perso ormai ogni speranza che la cosa potesse essere risolta, quando un giorno, nell’accendersi la pipa, sua fedele compagna, Alberto mi disse che nella sua auto (una vecchia millecento Fiat che scherzosamente chiamava “catorcio”) aveva qualche cosa che dovevamo provare con la chitarra.

Alla fine del turno di lavoro ci recammo a casa mia; abitavo in Via Millio al limite di Borgo San Paolo in un monocamera: tinello, cucinino e servizi dove, all'epoca, mi stavo costruendo dei mobili in stile “svedese”. Collegammo all'amplificatore il “trigomiro” (lo chiamava così  un circuito sperimentale) che aveva montato in una scatola d'alluminio, e finalmente potetti ascoltare  un “ effetto-vibrato" di tutto rispetto, che funzionava alla perfezione con una gamma di frequenze ampia e con una profondità d'effetto che, pur se spinta al massimo, non generava il minimo battito.              

 

 

 seconda parte -

Durante un programma televisivo, la grande cantante Mina, che oggi forse la maggior parte dei giovanissimi non conosce, aveva dimostrato come, con un registratore particolare, attraverso una successione di sovrapposizioni, una sola voce potesse diventare un coro. Era un registratore a più tracce.  

Si registrava sulla prima traccia, poi sulla seconda ascoltando la prima, poi sulla terza ascoltando la prima e la seconda insieme e così via.

 

( Mina a Studio1 nel link che segue: http://www.youtube.com/watch?v=lQgfOmPjSbE )  

 

Pensando  che con lo stesso sistema (nel mio caso) una sola chitarra sarebbe potuta  diventare un trio, un quartetto e continuando magari con altri strumenti, addirittura un’intera orchestra, la cosa mi aveva sempre affascinato ma…un registratore professionale del  genere,  per il suo costo,  non era certamente alla portata di tutti, tanto meno alla mia.

 Pensai di parlarne con Alberto azzardando  l’ipotesi di poterlo  io stesso costruire, bene inteso,  con il suo aiuto e la sua esperienza nel campo specifico.

Come pochi oggi se ne trovano, Alberto, non era geloso delle sue conoscenze, viceversa spiccatamente altruista e molto disposto a dare una mano a quanti gliela chiedevano, ben  consapevole delle effettive altrui capacità, avrebbe senz’altro valutato  le possibilità di riuscita e mi andavo chiedendo cosa mi avrebbe consigliato: se perseverare o  desistere da tale impresa.

Quando, entrando in argomento, gli prospettai l’idea di autocostruirmi  un registratore  con le suddette caratteristiche, la cosa lo entusiasmò, si dichiarò dispostissimo ad aiutarmi, tantoppiù che un  progetto del genere intrigava anche  lui.

Nei giorni successivi, nelle pause di libertà, non parlammo d’altro  ed intensificammo le nostre  periodiche visite al “Balôn” (Ba'lön).

Per chi non lo sapesse, il “Balôn”,  era il "mercato delle pulci" che ogni sabato  si faceva dietro Porta Palazzo.

Frequentavamo un certo signore (il cui nome ora non ricordo  ma sono certo che, come di solito accade, prima o poi mi verrà in mente!), un rigattiere di materiale tecnologico, spesso altamente tecnologico: in prevalenza componenti elettrici, elettronici, micromeccanica di precisione, tutto scarto o surplus di fabbriche anche importanti.

Da questa persona, chi era del ramo,  poteva trovare occasioni d’oro, anche perché spesso non  essendo costui a conoscenza di ciò che vendeva , i veri affari li faceva chi non esternava troppo il proprio entusiasmo per il prodotto al quale era  interessato, altrimenti il prezzo diventava direttamente proporzionale all’entusiasmo. Alberto ed io questo lo avevamo capito da tempo  e ci guardavamo bene dall’apparire particolarmente attratti dai prodotti che  intendevamo acquistare!

Un giorno venne con noi un nostro collega: si chiamava Guidotti, era di San Remo, anch’egli appassionato di “alta fedeltà”;  una persona in gamba. Ricordo che Alberto scherzosamente lo chiamava “l’antitàpe” per via della sua avversione alla musica registrata su nastro magnetico. Per lui non c’era di meglio che il 33 giri, il cosiddetto Long Playing “girato” su piastra Thorens, con amplificatore autocostruito (magari con  kit  della  Hirtel  dell’ing. Lo Martire di Corso Francia, suo corregionale, all’epoca anche produttore  di ottimi trasformatori d’uscita) ma  scrupolosamente collegato  a casse acustiche AR, a suo dire, superiori  alle  Golden Sound  sempre della Hirtel che, a richiesta, le forniva anche  in kit: (altoparlanti, filtri crossover,  indicazioni comprese sul dimensionamento delle casse per il “fai da te”).  Impossibile fargli cambiare idea, pur sapendo che un LP nasce comunque da un nastro magnetico.

Dicevo, dunque, Guidotti venne con noi al Balôn e quando la sua attenzione cadde su una partita di potenziometri, nuovi di zecca ed  ancora imballati, gridò entusiasmato: - Villa, guarda! Sono Allen-Bradley ! Questi costano una cifra ! - Infatti, quando  chiese il prezzo…"monsù Berard" (tale era il nome che finalmente è spuntato dalle pieghe della mia memoria e certamente qualcuno della mia età ancora lo ricorderà)  rispose con una cifra decisamente superiore al loro costo effettivo! Non comprammo neanche un solo Allen-Bradley ! E da quel giorno anche Guidotti imparò la lezione !

La Olivetti qualche anno  prima aveva dato il via alla produzione di un dittafono per uso ufficio che evidentemente non aveva riscosso successo  ed al Balôn erano arrivati alcuni dei suoi componenti.  Io  comprai dei motorini elettrici, alcune  testine magnetiche di cancellazione, altre  di registrazione/ascolto  e  due amplificatori completi registrazione/ascolto.

Nelle notti che seguirono, incominciammo ad elaborare il progetto su carta relativo alla piastra, adeguandolo alle dimensioni dei motori acquistati , a quelle delle testine ed al numero delle medesime. Naturalmente io mi limitavo a seguire e capire ciò che Alberto andava via via sviluppando.

Seguì poi la fase di tracciatura per la costruzione della meccanica di base,  ricavando i vari pezzi  da scarti di laminati metallici prodotti nel nostro stesso reparto, così come altri pezzi da profilati e tubi sempre  ivi prodotti.

Tutto procedeva lentamente e condizionatamente al carico di lavoro di routine e soltanto nel turno di notte il tempo a disposizione da dedicare a tale attività era maggiore.

La preparazione  dei singoli componenti meccanici, che poi via via assemblavo a casa, proseguiva e tutto ciò mi affascinava notevolmente ma erano le varie soluzioni che Alberto adottava le cose  più interessanti, specialmente quando mi accorgevo che era possibile realizzare particolari che consideravo  fattibili soltanto in laboratori specializzati e con macchine utensili adeguate. L’estro e la “precisione condizionata” del mio maestro rendeva possibile  ogni cosa.

Per dare un’idea di cosa fosse la “precisione condizionata” potrei fare molti esempi, ma mi limito ad illustrarne soltanto qualcuno  per i più curiosi.

Limare perfettamente in piano il taglio di un pezzetto di lamiera si può  serrandolo, a filo di tracciatura, fra due pezzi di acciaio che faranno da guida sfruttando la loro intrinseca precisione in quanto lavorati con macchina  utensile.

Realizzare una forcella per puleggia gommata di trasmissione saldando (a stagno) le due appendici calettate sul tubicino che farà da fulcro, è possibile ponendo fra le stesse un adeguato spessore rettificato  che le renderà planari fra loro.

Queste alcune delle  soluzioni per ottenere derterminati  meccanismi di base con una certa precisione, mentre per altri componenti, come volani stabilizzatori di velocità, perni rotanti di trascinamento o di guida del nastro, si doveva per forza far ricorso a macchine utensili quali torni e rettificatrici. In tal caso  ci rivolgevamo a qualche collega dell’attrezzeria di reparto oppure  al fratello di Alberto (Nino)  che, come prima ho detto, era un ottimo rettificatore della Olivetti.

Alberto però, ansioso di provare le particolari caratteristiche dell’ apparecchio, mentre io piano piano proseguivo per terminare la mia “piastra”,  bruciò i tempi utilizzando la meccanica di una sua precedente realizzazione modificandola sia nel gruppo testine, sia nel circuito di commutazione relativo agli amplificatori di registrazione/ascolto e ben presto la macchina fu pronta per le prove di collaudo.

Le caratteristiche principali del prototipo erano le seguenti:

Motori elettrici                                    n° 3

Velocità di scorrimento nastro:            9,5 -19 cm/sec

Senso di scorrimento                          da destra verso sinistra

Testine di cancellazione                       n° 2 stereo (due piste per  testina)

Testine di registraz./ascolto                 n° 2 stereo (due piste per  testina)

Amplificatore di registraz./ascolto         n° 1 stereo con possibilità di commutazione in mono

Pertanto la macchina poteva registrare in successione due piste stereo oppure quattro mono consentendo di raggiungere lo scopo prefisso. Nel limite di quattro passaggi si otteneva esattamente ciò che Mina aveva dimostrato  in TV con quel registratore professionale che costava una barca di soldi, compreso  la possibilità di ascolto finale in modalità stereo di due piste a scelta per canale.

Per consentirmi di effettuare le tanto agognate prove di registrazione con la chitarra, Alberto mi lasciò la sua macchina a casa, che utilizzai per diverso tempo, durante il quale mi sbizzarrii provando ad incidere alcuni brani che tuttóra conservo.

 

 

 

I brani di prova, di cui sopra, contenuti nella bobina registrata a Torino nel 1965 con il prototipo costruito da Alberto (foto sopra), possono essere riprodotti ancora oggi con quello che realizzai successivamente e che è possibile vedere attraverso il link sotto :

 

 http://www.youtube.com/watch?v=apTbbN8KT5s

 

 Ormai la passione per tali costruzioni mi aveva contagiato e qualche anno dopo, pur se impegnato con Alberto a studiare e realizzare altre cose, mi cimentai nel produrre una piastra di registrazione ancora più impegnativa della prima, contando sempre sull'aiuto del mio Amico, laddóve sorgevano difficoltà o dubbi.

Nelle due foto sotto, il prototipo di detta macchina rimasto, come il primo, "opera incompiuta", cioè privo di involucro.

 

  

 

 

 

 

 

 

Una testina magneticaprofessionale   AMPEX ad 8 tracce per nastro da   5/8" comprata al Balôn di Porta Palazzo a Torino nel 1967 per essere montata sulla piastra riportata nelle due foto sopra.

  

  

  

 terza parte -

Poiché il “vibrato” per chitarra, già descritto, rischiava di diventare monotono, iniziammo il progetto di un apparecchio che producesse altri effetti, come: Eko, Riverbero, Alone ed essendo il principio basato sempre sull’utilizzo di nastro magnetico e testine, tanto per restare in tema, alla costruzione dei registratori seguì quella di tale apparecchio.

La differenza sostanziale fra un registratore e questo dispositivo consisteva in una meccanica molto più semplice in quanto mancante delle due bobine di nastro e quindi dei relativi motori, essendovene uno solo per il trascinamento del nastro, nel caso specifico “a circuito chiuso”, avvolto su di un piattello girevole posto all’interno di un contenitore di plexiglass fissato nei pressi dell’albero di trascinamento.

Il “circuito chiuso” del nastro chiamato anche “senza fine” veniva realizzato incollando l’estremità della prima spira interna del nastro avvolto sul piattello, con quella della spira esterna, lasciando una opportuna ansa a seconda della distanza dal pivot e dal numero di testine magnetiche impiegate. Il trascinatore sfilava il nastro dalla spira interna lasciando che questo si riavvolgesse su quella esterna dopo essere passato a contatto con le testine.

Semplicità anche dal punto di vista elettrico. Nessuna inversione di rotazione, così come assenti i dispositivi di frenatura in corrente continua per i motori di recupero veloce del nastro, in quanto questi non presenti ; soltanto un interruttore di start ed un relais per l’allontanamento automatico del pivot dal nastro in posizione di stop.

Dal punto di vista elettronico, due preamplificatori separati: uno di riproduzione, l’altro di registrazione, ambedue sempre attivi. Nessun circuito di cancellazione in quanto questa era ottenuta mediante un magnetino permanente posto prima dell’unica testina di registrazione.

Il funzionamento, alquanto semplice, era il seguente:

Il segnale proveniente dalla chitarra (o da altro strumento musicale) veniva inviato al suo amplificatore e contemporaneamente (tramite il relativo preamplificatore-equalizzatore) all’unica testina di registrazione presente sul dispositivo. Una volta registrato, tale segnale veniva letto dalla/e testina/e di riproduzione e reiniettato nell’impianto di amplificazione generale.

Si otteneva così un primo suono diretto dello strumento, seguito da un secondo registrato e letto dalla prima testina di riproduzione, da un terzo letto dalla seconda testina di riproduzione e volendo da un quarto…da un quinto a seconda del numero di testine di riproduzione impiegate. Contribuivano a creare il maggior numero di effetti altri fattori come la velocità di scorrimento del nastro che determinava il ritardo fra il segnale diretto e quello registrato (che però comportava una riduzione di risposta in frequenza alle basse velocità).

Lasciando invece la velocità ottimale costante (19cm/sec.) ed utilizzando un maggior numero di testine fisse di riproduzione (fino a 6), a seconda di quelle attivate si poteva raggiungere una miriade di effetti di EKO, REPEAT, RIVERBERO, ALONE.

Successivamente vennero utilizzate soltanto due testine di riproduzione montate su una slitta che le allontanava o le avvicinava fra loro, e  queste da quella di registrazione; attraverso tale stratagemma si ottennero risultati più che soddisfacenti che migliorarono ulteriormente quando realizzammo il famoso “reinietto” cioè quando pensammo d’inviare il segnale della prima testina di riproduzione, nuovamente ed opportunamente equalizzato e dosato in ampiezza (onde eliminare possibili effetti Larsen) alla testina di registrazione.

Quando provammo gli effetti di tale apparecchiatura con la mia chitarra EKO, Alberto rimase così entusiasta che decise di comprarsene una per se, o meglio... di costruirsela.

Prese le misure su quella mia ma, come era sua abitudine, si mise a studiare il metodo matematico per la divisione della tastiera sul manico.

-Se tendiamo una corda su due appoggi distanti fra loro un metro – diceva - in relazione al suo diametro e sottoposta ad una data tensione, quando pizzicata questa emetterà un determinato suono ad una determinata frequenza che, ad esempio, risulti essere un LA 440 Hz.

Ora se poniamo un terzo appoggio esattamente a metà cioè a 50 cm fra i due, pizzicando la corda su uno qualsiasi dei due tratti, verrà emesso un suono corrispondente ad un LA 880 Hz cioè una ottava più alto.

Ma quale sarà il rapporto delle lunghezze intermedie della corda per ottenere i 12 semitoni a partire da 880Hz per giungere ai 440 ?

Il rapporto è dato da un coefficiente moltiplicatore “c” che elevato alla dodicesima, dia per risultato 2: 

risulta essere: c = 1,0594630943592952645618252949463…

 

pertanto se il La 880 Hz è ottenuto su una lunghezza di corda pari a 50 cm ( 500mm), il primo semitono più basso e cioè il Lab si otterrà con la stessa corda la cui lunghezza sarà mm 500x c = 529,731547 mm.

Moltiplicando poi tale numero nuovamente per “c” si otterrà la lunghezza di corda del semitono successivo ossìa del Sol… e così via.

Il primo semitono più alto, invece, e cioè il La#, si otterrà con la stessa corda la cui lunghezza sarà:

mm 500/c    =  471,9371565 mm e quello successivo, cioè il Si, si  otterrà con una lunghezza di corda pari a mm 471,9371565/c… e così via. 

 

La chitarra in breve tempo venne da Alberto realizzata. Era perfetta, precisa ed anche gradevole nell’estetica e nella timbrica. Io m’interessai a procurare i rivelatori magnetici, le chiavette ed il ponticello regolabile. Sono certo che tutt’ora quella chitarra sia conservata da qualche parte e  spero di avere un giorno una foto per pubblicarla qui insieme alle altre.

 

quarta parte -

Possedere un pianoforte è stato sempre il mio più grande desiderio.

Ricordo, fin da piccolo, che nel tiretto della specchiera di mia nonna, era conservato un oggetto metallico simile ad un martellino, talvolta a tal guisa utilizzato, per sbloccare i saliscendi delle finestre o per spaccare qualche noce sul davanzale, anche se questa particolare operazione veniva solitamente fatta  ponendo tale frutto nel cardine della robusta e pesante imposta delle finestre antiche, forzandola poi a chiuderla lentamente…uno schiaccianoci ideale!

Questo oggetto, per le sue fattezze artistiche, mi affascinava e spesso mi chiedevo cosa effettivamente fosse. Un giorno la nonna esaudì la mia curiosità spiegandomi che tale attrezzo non era  un martello bensì la chiave per accordare il vecchio clavicembalo, dello zio Leonardo sacerdote, che esisteva in casa  tanto tempo addietro.

Interessatissimo alla cosa, le chiesi con insistenza dove tale strumento fosse poi finito, ma la nonna nulla seppe dirmi in merito e che dell’esistenza del clavicembalo in casa, lo aveva appreso da suo marito, ossìa da mio nonno morto ormai da tempo.

La mia curiosità, dal “martellino-chiave”, si riversò su quel mitico strumento diventando sempre più crescente, tanto che più volte mi capitava di sognarlo coperto con un telo impolverato in una stanza adiacente a quella dove io dormivo, stanza in effetti inesistente al di la della parete di legno che con il muro formava  soltanto un’intercapedine, usata quale ripostiglio per le scope ed altri attrezzi per le pulizìe e dove mio zio Umberto, cacciatore, conservava la segatura per caricare le cartucce della sua doppietta calibro sedici.

Mi capitava anche di sognare che il vecchio tavolino (allora nella sala da pranzo, ed in seguito nello studiolo dello zio sopra menzionato) con il suo piano estraibile a mo’ di scrittoio, nascondesse al suo interno anche una tastiera…quella del famoso clavicembalo!

Quando poi mi recavo a casa di un mio cugino, nel cui atrio troneggiava un mastodontico pianoforte a coda, oppure da amici che  ne possedevano qualcuno più piccolo cioè di tipo verticale, escogitavo tutti i sistemi pur di riuscire a percuoterne i tasti.

Mi sono dilungato in questa premessa quale introduzione al successivo audace progetto per la realizzazione di uno strumento che per la sua complessità ci avrebbe particolarmente impegnati, ma con Alberto anche questo destinato certamente al successo.

Come di solito accadeva, io lanciavo l’idea, ne discutevamo a lungo durante le notti nelle ore di tranquillità, cioè quando in reparto tutto filava liscio, per poi iniziare la progettazione vera e propria.

Quando accennai l’ipotesi di costruire un organo elettronico, entrambi non avevamo la minima idea di cosa tale strumento racchiudesse al suo interno, tantomeno il principio del suo funzionamento.

Tuttavìa le nostre conoscenze in fatto di elettronica ci permisero di supporre che per la generazione delle note fossero utilizzati dei circuiti oscillatori a bassa frequenza, cioè nella gamma dell’udibile.

Una delle prime ipotesi fu quella di utilizzare dei tubi termoionici, le cosiddette valvole, ed Alberto pensò che una ECC82: un doppio triodo, della serie noval miniatura, avrebbe fatto al nostro caso.

Ognuna di tali valvole, infatti, avrebbe costituito due oscillatori e quindi generato  due note distinte; sei valvole per coprire una intera ottava.

La prima prova pratica fu quindi quella di realizzare un oscillatore variabile che attraverso un potenziometro ed un commutatore rotativo che sostituiva via,via il condensatore d’accordo per le frequenze più basse, produceva l’intera gamma delle note occorrenti.

Per servire quattro ottave avremmo dovuto utilizzare ventiquattro ECC82, soltanto per generare le singole note.

Nel bellissimo negozio di Maschio (ex batterista nella famosa orchestra del maestro Angelini e che in seguito aveva sposato la cantante Tonina Torrielli) situato in quell’angolo di piazza Castello verso via Po, che trattava dischi, spartiti e strumenti musicali, era esposto un Philicorda, una tastiera elettronica costruita all’epoca (anni 60) dalla Philips.

Con una certa assiduità, all’uscita del secondo turno di lavoro, cioè dopo le 22,00 quando  il negozio era ormai chiuso, incominciai a recarmi ed a restare a lungo con il naso appiccicato al cristallo dell’enorme vetrina perennemente illuminata (cristallo talmente pulito e trasparente che una volta mi  capitò di battervi la testa contro !) per leggere le tante indicazioni sui tasti e sulle manopole del Philicorda onde carpirne qualche elemento in più.

In seguito, attraverso una recensione su tale strumento, riuscimmo a saperne abbastanza per restare scoraggiati nell’impresa!

La generazione delle note nel Philicorda, infatti, avveniva attraverso oscillatori Hartley (in numero di 70 per una tastiera di 49 tasti, cioè quattro ottave più una nota) realizzati con una valvola miniatura innovativa al neon del tipo switching, costruita dalla Mullard società della Philips Componenti Elettronici. 

Reperire in commercio tale valvola, si rivelò impresa impossibile, oltretutto inesistente nei relativi prontuari dell’epoca.

Dopo varie riflessioni e dissertazioni, pensammo di poter utilizzare i transistor.

Una volta tali componenti erano sinonimo di “radiolina portatile” ma ormai venivano utilizzati nelle più svariate applicazioni. Al Balòn di Porta Palazzo se ne trovavano anche di nuovissimi, cioè mai usati, in confezioni da cento pezzi del tipo al germanio, scarti di magazzino perché soppiantati da quelli al silicio più affidabili e capaci di sopportare tensioni, correnti e frequenze più elevate.

Ne comprammo diverse confezioni del tipo 2G603GEPNP le cui caratteristiche erano: 100mW;15V; 200mA; 9MHz. Ci procurammo anche un volume con gli schemi per le varie applicazioni che ci permise di realizzare il primo oscillatore a transistor, più precisamente un multivibratore astabile che generava frequenze ad onda quadra e che attraverso filtri adatti poteva assumere forme diverse: triangolare, trapezoidale, perfino "pseudo-sinusoidale", onde ottenere timbri diversi su di una stessa frequenza, molto più gradevoli di quelli che la forma quadra emetteva, quasi simili al suono della fisarmonica.

Ogni multivibratore prevedeva l’utilizzo di due transistor, pertanto per una tastiera di 4 ottave (48 note) una confezione da cento pezzi calzava a pennello avanzandone anche quattro di scorta.

Infatti, per il nostro prototipo, eravamo convinti che ogni nota dovesse avere il proprio oscillatore ben tarato sulla specifica frequenza.

Intanto, mentre Alberto era impegnato nella costruzione di una tastiera di 4 ottave con i tasti bianchi in legno ricoperti da celluloide bianca opaca e quelli neri in bachelite nera che suo fratello Nino aveva lavorato e lucidato a macchina, da una rivista tecnica appresi che in Francia si vendeva una scatola di montaggio per la costruzione di un organo elettronico a doppia tastiera e che lo schema relativo era apparso sulla rivista di divulgazione elettronica “Le haut-parleur”.

Dopo una breve ricerca per reperire l’indirizzo della redazione, scrissi a questa  una lettera richiedendo l’invìo, in contrassegno, di tale rivista che, nello spazio di una settimana, mi giunse … in omaggio!

Rimasi meravigliato per tanta premura e sollecitudine e replicai immediatamente con una seconda lettera di ringraziamenti.

Alla pagina 62 di tale rivista iniziava l’articolo dell’organo, con il relativo schema, che prevedeva l’utilizzo di 154 transistori.

Ad Alberto non avevo fatto cenno alcuno della cosa; quando gli mostrai la rivista fu oltremodo felice ed iniziò immediatamente a studiare minuziosamente  lo schema che stravolgeva buona parte dei nostri princìpi sulla filosofìa di funzionamento ma rendeva anche le idee più chiare su quelli “azzeccati” !

Non servivano affatto 48 oscillatori : uno per ogni nota, bensì soltanto 12 (ed erano, come da noi previsto, proprio dei multivibratori astabili )  per generare i 12 semitoni di partenza, quelli a frequenze più elevate dai quali ricavare, attraverso circuiti divisori (flip-flop), gli altri delle ottave più basse.

Questa soluzione ci apparve subito non soltanto geniale ma estremamente  pratica in quanto accordando, secondo la scala cromatica, i 12 oscillatori, tutte le altre note da essi derivanti risultavano perfettamente accordate. In seguito ci accorgeremo che proprio in virtù della sincronizzazione di tali note dovevamo risolvere altri problemi dovuti al fenomeno di “intermodulazione”.

Inoltre per consentire una sintesi armonica gradevole per i vari registri, inglobando sullo stesso tasto, opportunamente dosate, note di ottava superiore, inferiore ed anche di quinta armonica, era tassativo avere a disposizione note per almeno 6 ottave onde servire una tastiera di 4 , cosa questa che faceva aumentare il numero dei transistor impiegati nella generazione delle note.

Infatti : per servire  i sei “Do” delle singole ottave,  necessitavano due transistor per l’oscillatore e due per ogni divisore: in tutto 14 che moltiplicati per i 12 semitoni facevano salire il numero dei transistori (14 x 12) a 168 soltanto per la generazione delle note a prescindere da quelli occorrenti per le ulteriori funzioni come filtri, effetti, etc. 

I primi ostacoli erano quindi superati ed il prototipo che Alberto stava ormai producendo, prendeva forma ogni giorno di più.

 

 

 

 

 

Il primo prototipo dell'organo realizzato da Alberto. Nella foto si può notare la tastiera di cinque ottave (Do/Do) autocostruita. I tasti bianchi in legno e celluloide, quelli neri in bachelite. Sono visibili, in alto, i commutatori per i vari timbri di suono ed in basso l'altoparlante biconico da 300mm per il woofer ed 80mm per il tweeter-midrange, pilotato da un amplificatore a valvole da 20 watt.

 

 

 

 

 

 quinta parte -

 Di tutte queste attività ne avevo messo al corrente mio padre, anche lui da sempre appassionato di elettronica. Anni prima si era iscritto ad un corso radio per corrispondenza con la Scuola Radio Elettra di Torino. In verità l'aveva fatto pensando d' invogliare anche me a frequentarlo, ma poco dopo io partivo per il servizio militare di leva e tale corso, che comunque portò a termine, diventò il suo più piacevole passatempo. 

Alquanto pragmatico per certi aspetti, quando seppe dell'ingrato compito nel quale ci eravamo "imbarcati" per la costruzione delle tastiere, fece una ricerca presso alcune fabbriche di fisarmoniche esistenti nelle Marche che all'epoca erano in fase di riconversione per adeguarsi al nascente campo degli strumenti musicali elettronici. Contattò e visitò una di queste: la "Daily", che era appunto produttrice e fornitrice  di meccaniche di tastiere e costituiva l' indotto per altre case produttrici di strumenti musicali.

Il prezzo di ogni tastiera (mi pare, all'epoca, settemila-ottomila lire) per qualità, efficienza ed estetica, era più che conveniente, il che rendeva drasticamente sconsigliabile una  costruzione artigianale delle stesse.

S'interessò a farmi recapitare le prime due come campione, ciascuna di quattro ottave più una nota (49 tasti) e precisamente una dal Do al Do e l'altra dal Fa al Fa, con le quali iniziai a costruire il mio prototipo di organo a doppia tastiera in versione portatile. A breve distanza ne furono commissionate altre tre coppie identiche alle prime, per le successive costruzioni di altri organi e cioè: una coppia per Alberto, una coppia per suo fratello Nino ed una coppia per me che intendevo realizzare un secondo organo, questa volta  in versione "consolle", in quanto avrei regalato  il primo esemplare a mio padre.

 

 

mont.organ1  

 

 

 Torino, maggio 1965

Nella mia casa di Via Francesco Millio, durante la costruzione della "base note" del primo organo. Sono visibili i 12 filari (in senso orizzontale rispetto alla foto) dei circuiti a transistor, ciascuno formato da un oscillatore e sette divisori di frequenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

mont.organ2

 

 

 

Torino, marzo 1966

Durante una pausa dopo alcune modifiche successive alla prima versione ed il montaggio di una scheda posteriore contenente ulteriori contatti e relativi circuiti per l'effetto "percussione" (non pesata) aggiunto alla tastiera superiore.

 

 

 

 

 

 

 

 

gioial organ

 

 

 

 

Il prototipo completato dell'organo a doppia tastiera, in versione portatile, con amplificatore a transistor ed altoparlante incorporati per renderlo autonomo. 

Regalato in seguito a mio padre, attualmente da me conservato ed ancora funzionante.

 

 

 

 

 

  

organo Villa 2

 ll secondo esemplare realizzato da Alberto, utilizzando le tastiere della Daily. Racchiudeva in se caratteristiche pregevoli di timbrica molto prossime agli strumenti tradizionali ed una serie di percussioni (non a tasti pesati) molto somiglianti ad un piano tradizionale. Provvisto di effetti sperimentali come: Vibrato; Leslie; Chorus; Soundsphere; Riverbero elettronico (non a molla). Corredato di batterìa elettronica in seguito ad una mia ricerca, negli USA, del relativo schema; particolare, questo, descritto  più avanti. Alcuni anni dopo subirà ulteriori modifiche allorquando, lasciata la Fiat, riuscirò a reperire ed inviargli lo schema completo di un organo  Hammond.

 

 

 

 sesta parte - 

Sempre nello stesso negozio di Maschio -Torrielli, in Piazza Castello, avevo visto esposta in vetrina un'apparecchiatura simile alla testata di un amplificatore, il cui pannello insieme alle solite manopole, interruttori e spie, era tempestato da una lunga fila di pulsanti, sotto i quali in serigrafia apparivano i nomi dei più svariati ritmi:  Valtz, Tango, Rumba, Samba, Beguine, Cha-cha-cha ...e via dicendo e , fra le altre, la manopola di un potenziometro sotto la quale la scritta "TIME" che  i due segni sottostanti " - / +"  lasciavano intuire, con pochi dubbi, che fosse il controllo per la regolazione del tempo. Quando chiesi delucidazioni in merito, il commesso mi spiegò che si trattava di un generatore di percussioni ritmate, in poche parole: una batteria elettronica automatica.

Dopo aver cercato, in giro, schemi elettrici relativi a tale apparecchio, oppure di altri simili, ed essendo stato vano ogni tentativo  sia a Torino  che altrove in Italia, pensai di provare in America, negli USA, sapendo che ivi il marito di una mia cugina, un  electronic engineer, poiché gestiva una radio locale, avrebbe potuto darmi una mano.  

Per evitare un discorso diretto alquanto complicatodovuto alla mia scarsissima conoscenza dell'Inglese, nella telefonata che feci, preferii parlare con mia zia (sua suocera) spiegando a lei cosa cercavo.

 

La risposta non tardò ad arrivare. Nataniel Johnson (tale il nome del marito di mia cugina, chiamato Nat in famiglia) mi procurò subito ciò che mi occorreva e la zia  mi fece recapitare il relativo plico in breve tempo. Conteneva lo schema completo di un electronic rhythm instrument che, dalla complessità dei vari circuiti, lasciava supporre essere un'apparecchio di qualità elevata.

 

 

 copertina 1               copertina 2 

 

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Le copertine della documentazione tecnica del "Rhythm-instrument" che Nat Johnson mi procurò in USA

 

 Lo consegnai subito ad Alberto che immediatamente iniziò a studiarlo per comprenderne il funzionamento e quindi valutarne la fattibilità utilizzando componenti elettronici equivalenti: sia perché gli originali difficilmente reperibili in Italia, sia perché intenzionati ad utilizzare quelli che potevamo procurarci al solito mercatino delle pulci: "il Balôn".

Tutto ciò comportava una grande quantità di prove attraverso la realizzazione di circuiti sperimentali per verificare il corretto funzionamento di ogni sezione e queste nel contesto  generale dell'apparecchio.

Dopo innumerevoli e ripetitive prove, quando tutto sembrava funzionasse correttamente, con particolare riferimento alle timbriche delle varie percussioni, cosa estremamente importante per ottenere riproduzioni il più somiglianti a quelle reali, passammo alla progettazione e produzione dei vari circuiti stampati che dovevano contenere i componenti elettronici. Tali circuiti stampati vennero realizzati mediante  tracciatura manuale su carta da disegno in scala 2:1 (per ottenere un livello di precisione maggiore) dai quali, attraverso un procedimento fotografico, venne ricavata una pellicola negativa  la quale, con l'ausilio di un ingranditore, riproducendo le misure reali  del circuito, impressionava la rispettiva lastra di bachelite ramata fotosensibile, che poi veniva "sviluppata" per corrosione in soluzione di cloruro ferrico.

La foratura per il passaggio dei reofori dei componenti elettronici, sia passivi che attivi, costituiva l'ultima fase della lavorazione. 

       

Qui di seguito le foto (in scala ridotta) dei principali circuiti stampati  sopra descritti.

 

 

Gen.suoni

 

 

 

 

matrice

 

 

 

 

selezione

 

 

Sotto:

Electronic rhythm instrument 

I circuiti stampati, completi dei componenti, posizionati sul telaio nella parte inferiore dell'apparecchio, visti dal lato saldature.

 

batteria 2

 

 

 Sotto:

Electronic rhythm instrument 

 La struttura portante con i circuiti stampati visti dal lato componenti; il pannello laterale contenente: la presa per l'alimentazione a 230 V ac; il fusibile di protezione; una presa jack per l' uscita del segnale bf 250 mV; una presa jack per l' uscita del segnale bf 50 mV; una presa jack per il pedale start/stop; induttanze con nucleo in ferrite per l'accordo delle timbriche (tamburo, grancassa, bongo); il trasformatore dell' alimentatore che fornisce le varie tensioni dc stabilizzate ; la cablatura dei cavetti di collegamento. 

 

 

batteria 1

 

 

Sotto:

Electronic rhythm instrument 

L'apparecchio  visto dal lato anteriore

 

batteria 3

 

Sotto:

Electronic rhythm instrument 

 Il pannello dei comandi

Da SX: spia luminosa del metronomo; interruttore d'accensione e volume del segnale d'uscita; bilanciamento tra i due gruppi di strumenti; regolazione tempo; tastiera di commutazione 2 beat/4beat e prima serie di ritmi; pulsanti di commutazione seconda serie di ritmi.

pannello batteria

 

Sotto:

Electronic rhythm instrument  

Completo di mobile, collocato sull'organo Gioial.

 Le caratteristiche di questo apparecchio, successivamente ci permisero di sperimentare un sistema di accordi ritmati  sulle prime due ottave della tastiera inferiore.

Attratto da nuovi progetti tendenti a migliorare sempre più le sue caratteristiche, la costruzione del mio secondo organo, pur se  iniziata e più volte interrotta e rimandata,  non fu mai portata a termine.

Le due tastiere sulle quali era già stato predisposto e sperimentato un nuovo sistema di contatti multipli, sono ancora li, confezionate con cura in una scatola, in attesa di ciò che più non avverrà.

 

batteria 4

 

 

settima parte -

Ma qualcosa di nuovo mi attraeva e mi distraeva allo stesso tempo e come se appagato dai risultati ormai ottenuti; la curiosità, il piacere del nuovo...un'altra sfida con me stesso, fecero orientare  altrove i miei interessi, e mi trovai catapultato in un'altra avventura tecnologica, un progetto forse inconsciamente tenuto dentro di me da anni, da quando quel proiettore OMI a passo ridotto (pellicola -16mm) del piccolo cinematografo una volta esistente al mio paese che non voleva saperne di funzionare stabilmente, rappresentava  la mia croce tutte le volte che dovevo rinunciare alla partita di pallone con i miei compagni, perché obbligato da mio padre a rimanere  con lui e con il tecnico (De Angelis), un ciociaro che veniva da Campobasso, per tentare di rimediare, sistematicamente e caparbiamente, alla solita anomalìa congenita che lo caratterizzava : quella di fare spesso le bizze durante la proiezione! L'audio Iniziava a balbettare, a diventare rauco, a scoppiettare, talvolta costringendoci a rimandare lo spettacolo. 

 

OMI proiect1 

 La storia di questo piccolo cinematografo, nato negli anni cinquanta per l'iniziativa di 15 soci, con l'intento di costituire un circolo privato (non c'era ancora la televisione) che accogliesse anche le  rispettive famiglie, ma che poi diventò pubblico con biglietto d'ingresso regolarizzato a tutti gli effetti, è stata da me già narrata altrove e penso che lo sarà nuovamente su questo sito in un prossimo articolo. Il protagonista principale  fu questo proiettore della OMI (Ottica Meccanica Italiana) la cui costruzione risaliva agli anni venti ed era stato acquistato d'occasione. Era un vero gioiello della meccanica soprattutto per il sistema di trascinamento della pellicola realizzato a "Croce di Malta" in bagno d'olio, ma per quanto riguardava la parte elettronica (lettore ottico a fotocellula della colonna sonora ed amplificatore a valvole termoioniche " zoccolo a bicchiere") un vero e proprio strazio ! Nel corso dei suoi cinque o sei anni della sua permanenza qui in paese, subì tante di quelle modifiche che compromisero anche la carcassa in più punti bucata e limata per l'adattamento di componenti diversi, considerati (invano) più affidabili, finché, l'avvento della televisione (giunta da noi nel febbraio del 1954) pose fine al suo servizio lasciandolo abbandonato e semi arrugginito in fondo alla cabina di proiezione del piccolo cinema ormai chiuso.

 

 

 

Nella figura sopra:il proiettore OMI da una vecchia fotografia risalente al 1949 (epoca dell'acquisto) quando ancora nessuna modifica vi era stata apportata.

 

 

Interpellati  i soci ancora presenti in paese, chiesto a loro se potevo avere quel relitto abbandonato ed ormai semi-arrugginito dal tempo  e dall'umidità ed avendo ottenuto il consenso, nel 1967 me lo portai a Torino e, dopo averlo smontato in ogni suo particolare, ne iniziai il restauro a cominciare dal ripristino della carcassa, chiudendo con tasselli dello stesso materiale (alluminio) e con opportune saldature, tutti i fori e le "voragini" in questa praticate. Dopo una accurata sabbiatura la feci verniciare a fuoco: verde martellato anzicchè marrone, suo colore originale.

Reperiti attraverso il relativo numero di matricola, con la collaborazione di un amico che lavorava presso la RIV-SKF di Airasca (TO), sostituii tutti i cuscinetti nei loro alloggiamenti. Nino Villa, il fratello di Alberto che, come ho già detto, era un valente rettificatore della Olivetti, mi "clonò" (da quelle vecchie  con i dentini consumati) una dozzina di ghiere dentate che sostituii ai rulli di trazione della pellicola, conservando per scorta quelli rimanenti, così come alcuni perni rettificati ed alcuni coperchietti di chiusura dei punti d'ingrassaggio.

rullo

 

Nella foto  sopra: rullo per il trasporto della pellicola completo di ghiera dentata  e  uno dei suddetti ricambi.

 

Quando tutta la meccanica fu montata, compresa la cromatura di quelle parti che tali erano in origine, dopo aver ripristinato i punti d'ingrassaggio ed il livello dell'olio della "Croce di Malta", con la sola alimentazione del motore, feci girare una bobina di film per verificare il corretto funzionamento meccanico.

Successivamente passai alla parte elettronica sostituendo il vecchio sistema di lettura ottica (a fotocellula) della colonna sonora, con uno più moderno, utilizzando un fototransistor e relativo circuito preamplificatore opportunamente equalizzato, tale da ottenere  una risposta  più veloce ed un  range più ampio di frequenze riproducibili. 

La lampada originale dello spot luminoso dietro la colonna sonora della pellicola, alimentata in corrente alternata  da una bassa tensione (12V), richiedeva una corrente elevata per raggiungere l'incandescenza del filamento richiesta. Questo contribuiva ad aumentare  l'inerzia termica dello stesso, rendendo meno elastica la dinamica della pulsazione della luce dovuta alla frequenza di rete (50Hz) riducendo così il rumore di fondo che la vecchia fotocellula, per la sua scarsa risposta alle frequenze più basse (e anche più alte)  stentava a percepire. Con il fototransistor, molto più sensibile e con una banda di frequenza molto più estesa, tale rumore  risultava molto più accentuato, addirittura fastidioso.

Sostituii, quindi, anche questa  lampada con una dalla stessa emissione di luce, ma alimentata in corrente continua, eliminando così ogni traccia di componente alternata che potesse produrre pulsazioni di luce rilevabili  dal fototransistor e traducibili in rumore di fondo, migliorando sensibilmente anche il rapporto segnale/disturbo.

Sostituii il vecchio amplificatore a valvole con uno a transistor da 40 Watt autocostruito ed adattato, per ingombro e forma, alle dimensioni del suo vano contenitore.

Sostituii la vecchia lampada di proiezione da 110 V-700 Watt con altra da 220V-500 Watt, riducendo notevolmente il carico sul trasformatore di alimentazione in quanto, quest'ultima, collegata direttamente alla rete e protetta da un interruttore magnetotermico. Tutte queste modifiche contribuirono a ridurre notevolmente anche il calore generato, che la ventola di raffreddamento, riuscendo meglio a dissiparlo, eliminava ulteriori concause di anomalìe ad esso attribuibili.

 

OMI proiect2 

 

 

Torino - Nella foto al lato il proiettore dopo il restauro, pronto per girare un film noleggiato per l'occasione. Un particolare interessante è che al primo collaudo generale effettuato con una vecchia pellicola "La Settimana Incom" ,sembrava che il sonoro fosse più che accettabile, mentre con questo film noleggiato ebbi una grande delusione! L'audio risultò alquanto peggiorato e certamente non secondo le mie aspettative. Perdendo quella calma indispensabile in simili circostanze, mi accanii per molto tempo cercando di allineare meglio il fascio luminoso, regolando la relativa lente e la feritoia che determinava il trattino di luce sulla colonna sonora, senza ottenere alcuna miglioria, anzi peggiorando ulteriormente le cose. Stanco ed amareggiato rimisi la vecchia bobina de la "La Settimana Incom" e tutto tornò a funzionare regolarmente. Il risultato dipendeva dalle tracce ottiche differenti: ad ampiezza variabile quella de "La Settimana Incom"  ed a densità variabile quella del film noleggiato!

 

 

 

 

 

Soltanto in seguito seppi che il difetto riscontrato non era da attribuire al proiettore bensì alla diversa tipologìa della colonna sonora che a densità variabile poteva causare problemi se non addirittura risultare completamente illeggibile; questo quando riportai il film al noleggiatore che conosceva molto bene il problema e me lo sostituì senza alcun aggravio di spesa.

 Ma la soddisfazione più grande la ebbi allorquando mio padre con  altri due suoi amici, entrambi soci di quello che era il piccolo cinematografo del paese di tanti anni addietro, venne a Torino.

Una sera che li ebbi tutti ospiti a casa mia, dopo cena, preparai per loro una sorpresa: piazzato il proiettore nel tinello e, nella camera di fronte diventata "sala cinematografica", uno schermo con dietro una cassa acustica, tenendo le porte spalancate, proiettai un film a colori durante il quale, da tutti i presenti (c'erano altri amici,compreso Alberto) ricevetti i complimenti, meravigliati per la chiarezza dell'immagine e per la bontà dell'audio, ma fra tutti questi elogi, ciò che maggiormente mi gratificò fu quella  frase di mio padre che ancora oggi mi sembra risentire: - Questo proiettore non ha mai funzionato così ! Forse neanche appena  uscìto dalla OMI ! -

Magari era vero, ma pur vero che ai tempi della sua fabbricazione (1920), mentre la meccanica di precisione non aveva nulla da invidiare all'attuale, la componentistica elettronica non era affatto paragonabile a quella che mi aveva permesso di raggiungere tali risultati.

Quando poi il discorso cadde su ciò che, in futuro, ne avrei fatto di tale "aggeggio", non seppi dire granché, non avendo alcuna idea in proposito. Certamente non era una macchina destinata ad uso domestico, tantomeno riutilizzabile per un improbabile cinema da riaprire in paese e poiché, oltre a tutto il lavoro, avevo speso una somma non trascurabile per il suo restauro, mi consigliarono di venderlo, magari attraverso un annuncio su uno di quei giornali ad hoc ! Avrei certamente trovato qualche amatore interessato ad acquistarlo; ma l'idea non mi allettava affatto! Lo vedevo come una mia creatura e l'avrei tenuto per ricordo! Oltretutto avrebbe fatto una bella figura se esposto fra gli altri oggetti tecnologici della mia casa ! Magari un giorno l'avrei riportato a Santa Croce per proiettare, dopo tanti anni  un film con gli amici d'un tempo! Sogni!

Lo vendetti ad una parrocchia recuperando ciò che avevo speso, poco prima di lasciare definitivamente la Fiat, Torino, il mio amico Alberto, suo fratello Nino, le loro rispettive famiglie e tutti gli altri amici con i quali avevo passato i miei sette anni più duri ma , anche più belli della mia vita, per ritornare alla mia terra, al mio Sud che, stando al giudizio di quanti mi avevano conosciuto e frequentato, avevo comunque degnamente rappresentato. Non mento affatto se ancora oggi, a distanza di tanto tempo, provo ancora una certa nostalgìa pensando alla  parentesi della mia vita trascorsa nella mia cara Torino.

 

ottava parte -

Rientrato a Campobasso nel novembre del 1970, mettendo a frutto quella che era stata la mia passione hobbistica a Torino, intrapresi un'attività commerciale che trattava: Hi-Fi, strumenti musicali ed accessori per detti,  musica di ogni genere sui vari supporti allora utilizzati, dai dischi in vinile LP/33giri  e 45/giri ai vari tipi di cassette a nastro, compresi i famosi Stereo-8 allora in voga ; componenti elettronici prevalentemente inerenti ai prodotti trattati etc.

L'apertura di tale attività avvenne nell'Aprile del 1971. Oltre al commercio, curavo l'assistenza tecnica diretta sui prodotti trattati, ero l'unico in tutta Campobasso (e forse nell'intera regione) in grado di "mettere le mani" sugli strumenti musicali elettronici e particolarmente sugli organi elettronici. Ben presto mi feci conoscere.

Si  rivolgevano a me, oltre ai privati: i complessi orchestrali, gli istituti scolastici, i  parroci (anche della Provincia) che avevano problemi sui loro organi chiesastici. Iniziai a produrre, su richiesta, amplificatori Hi-Fi di piccola e media potenza, apparecchiature per discoteche (qualcuna è ancora in circolazione) e tante altre applicazioni ormai passate nel "dimenticatoio". Collaboravano con me anche i miei due fratelli che facevano parte di complessi musicali molto conosciuti nella zona e questo contribuiva ad allargare la cerchia dei clienti. Tale attività  durò sette  anni o poco più. In seguito decisi di abbandonare ogni cosa per il continuo aumentare delle tasse e delle spese di gestione sproporzionate rispetto alle entrate.

 

negozio 1              discoteca

 Nelle  foto sopra : (a sinistra) particolare del  mio "negozio-laboratorio" di Campobasso all'inizio dell'attività e (a destra) un piccolo impianto per discoteca, di mia produzione.

  

Tra tutte le mie attività ebbi anche l'opportunità, alquanto singolare, di "mettere le mani" sul "Re" di tutti gli organi: l' Hammond.

Acquistato da uno dei tanti impresari  musicali  del posto e ceduto in comodato d'uso ad un gruppo musicale, per dissapori interni o forse soltanto per semplice vandalismo, venne danneggiato "irrimediabilmente" (erano stati addirittura tranciati in più punti i fasci cavo  del cablaggio elettrico) tanto che un laboratorio specializzato,  al quale si erano rivolti, aveva ritenuto non conveniente procedere alla riparazione per l'esorbitante somma richiesta per un simile lavoro.

Fu così che, fiduciosi nella presunta mia capacità di risolvere anche il loro problema, lo portarono al mio negozio per un estremo tentativo di recupero, giacché considerato ormai perduto. Non mi posero  alcun limite di tempo per la riparazione, ne io m'impegnai sulla riuscita di quello che consideravo soltanto un tentativo che richiedeva molto tempo e... tanta pazienza !

 

 

Hammond

 

 

 

 

Nella  foto al lato: in un angolo del mio negozio, l'organo Hammond  completamente ripristinato e funzionante dopo diversi mesi di paziente lavoro spesso interrotto dallo studio dei vari schemi e dalle lunghe  attese dei ricambi  all'occorrenza richiesti alla Casa Madre.

 

 

 

 

 

Attraverso la Italmusic s.r.l., Rappresentante Generale per l'Italia della Casa Hammond, che all'epoca aveva i suoi uffici a Roma in via Germanico - 55, dove in precedenza mi ero recato, e che mi fornì tutti i ricambi richiesti, riuscii ad avere anche il technical data sheet che la Hammond riservava esclusivamente ai propri tecnici e che, in via eccezionale, mi fu concesso in quanto evidentemente colpiti, dalla mia competenza specifica nel ramo, durante il colloquio con loro avuto.

Il mio primo pensiero fu quello di farne subito una copia per spedirla ad Alberto. L'organo Hammond, conosciuto in tutto il mondo per il suo caratteristico ed inconfondibile suono che tutti gli altri costruttori di organi di tipo elettronico hanno cercato sempre di imitare, mai riuscendovi perfettamente, è un organo elettromeccanico che produce le sue note attraverso cammes rotanti (rotelline dentate) i cui denti passando davanti a piccoli rivelatori magnetici generano un campo elettromagnetico variabile che si traduce ai capi della bobina in una debole tensione alternata la cui frequenza è in relazione al numero dei denti  ( una rotellina di 440 denti corrisponde al  La centrale (440 Hz) di una tastiera (il cosiddetto corista) . Tale segnale, amplificato, produce la nota sonora.

 

Nota:

Questa spiegazione molto approssimativa, semplice e sintetica è rivolta a coloro non particolarmente edotti nel campo specifico, con il solo scopo di dare un'idèa sul principio di funzionamento di questo meraviglioso strumento. 

  

Poiché nel passato ci eravamo interessati solo ed esclusivamente di organi elettronici dove (come detto all'inizio di questo articolo) a cominciare dal generatore di note, tutto era elettronico, il "malloppo" poteva apparire di scarsa importanza e di relativa curiosità ma gli Hammond di nuova generazione, compreso questo della "Serie T" ,che stavo restaurando, erano costituiti  in gran parte anche da circuiti elettronici e non tardai ad accorgermi che gli stessi contenevano soluzioni meravigliose e, almeno per me, nuove ed impensabili...

 

Hammond TS

 

 

  ...fotocopiai il tutto ed inviai  il relativo plico ad Alberto. Questa la Sua risposta:

 

 

 lettera 1973

 

 

continua

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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